Итальянский с любовью. Осада Флоренции / L'assedio di Firenze
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“Ludovico, io sono venuto a dirvi addio. Prima che nasca il sole, mi `i forza partire in servizio della Repubblica per impresa piena di pericolo e di gloria. I giorni dell’uomo sono uguali ai passi del viandante, – i giorni del soldato trovano appena paragone nei passi del cavallo che fugge”.
Ludovico alz`o gli occhi attonito e rispose:
“Perch'e rimango io?”
“Per ordine dei signori Dieci consegner`o” la terra al nuovo commissario Andrea Giugni…”
Costui conobbi sempre studioso della licenza, la quale, finch'e non trovi luogo a dimostrarsi nel suo brutto sembiante intera, assai sovente si scambia con la libert`a, uomo di corrucci e di sangue, non di quell’animo fermo che i gravi casi della patria domandano, di costumi corrotto e superbo, ogni bene riposto nei grossolani diletti della vita. La impresa a cui mi prepongono i Dieci giover`a assai alla salute di Firenze, Perch'e, vincendola, come, da Dio sovvenuto, confido, ridurr`a alla sua devozione una citt`a ribelle, e il suo credito scaduto verr`a a rinverdire; in ogni caso, scemer`a forza all’esercito, Perch'e Orange mander`a gente a tentare di ricuperarla. Per`o il danno non compenserebbe il vantaggio perdendo Empoli: finch'e conserviamo questa terra, non sar`a mai spacciata la patria; la campagna ci `e aperta fina a Pisa, comodissima ci sovviene la facilit`a di provvedere gli assediati; insomma il Palladio di Firenze si conserva qui dentro. Or dunque voi comprendete di quanta importanza mi sia lasciarvi persona sicura che vigili attentissima tutti i casi che possono accadere alla giornata e me ne ragguagli con diligenza”.
“Ma”, – riprese esitando Ludovico, – “la promessa che voi faceste al padre mio moribondo mi suona diversa; o non prometteste voi ch’io vi sarei morto al fianco per la patria combattendo?”
“Vico, io non muto mai; ma dite: voi da quel tempo in poi nulla vi sentite mutato? Allo amore di patria non si mescol`o per avventura un altro amore? Vostro malgrado, non si lev`o nel cuor vostro un istinto di conservazione per la vostra vita dacch'e un’altra vita vi preme molto pi`u della vostra? `E santo il vostro affetto, ed io lo approvo; pure sarebbe stato meglio che vi avesse acceso in altra stagione. Ma i fati reggono gli eventi; io poi non domando mai cose superiori alla umana natura; male, penso, si lascia il fianco della sposa per affaticarsi quotidianamente al raggio del sole in battaglia”.
“Messere, l’uomo difender`a per religione quel sepolcro, Perch'e contiene le ossa de’ suoi congiunti e conterr`a le sue; ma se vi aggiungi la difesa della sua sposa e dei figliuoli, allora il soldato ti parr`a fulmine di Dio contro i nemici: io mi rammento avere udito raccontare dal padre di Vico come gli antichi Spartani non accettassero combattenti nella falange sacra dove non fossero innamorati…”
“E che vorreste fare, giovanetta?” – le domanda amorevolmente il Ferruccio.
“A lui”, – riprese Annalena additando Vico, – “quello che spetta a moglie d’uomo che combatte per la difesa della patria; a voi quanto incombe a figliuola di padre affettuosissimo: io per me abborro il sangue, e la guerra `i necessit`a che deploro con tutta l’anima; apprester`o bende e rimedi alle ferite mentre voi vi avventurate al pericolo di riceverle; vi veglier`o infermi; vi temperer`o con freschi pannilini l’ardore delle membra quando vi travaglier`a la febbre; ricever`o nel mio seno il colpo che vi sar`a indirizzato… vivr`o con voi, e per voi morir`o”.
Il matrimonio di annalena e Vico fu celebrato nelle domestiche pareti, ch`i prima del concilio di Trento molte formalit`a, diventate in seguito sostanziali, si trascuravano; mancarono i riti solenni; non vi assist`i la corona dei parenti e degli amici. Il Ferruccio, modesto com’era, and`o lui stesso per il prete. Furono nozze dicevoli al soldato in procinto di perdere la vita, alla donna che corre pericolo di diventare vedova prima che sposa. La religione del cuore suppl`i alle pompe religiose, l’amore immenso dei pochi alla proterva allegrezza dei molti convitati.
Compiti appena gli sponsali, Vico baci`o in fronte la sua donna e tenne dietro al Ferruccio disposto a partire. Il Ferruccio, accompagnato dal nuovo commessario Andrea Giugni e dai capitani che lasciavano alla difesa di Empoli, Piero Orlandini cui lui stesso con fervidissime istanze aveva pi`u volte raccomandato ai Dieci come prode non meno che prudente uomo di arme e della libert`a sviscerato, Tinto da Battifolle, Bocchino Corso e il conte di Anghiari, percorre le file, esaminando se avessero trasgredito in nulla i comandamenti di lui. Affrettati i passi, Il Ferruccio giunse in Volterra il giorno stesso 26 aprile che si part`i da Empoli, trascorsa appena la ventunesima ora: subitamente introduce i fanti per la porta del soccorso nella cittadella; fatti smontare i cavalleggeri e cavare le selle ai cavalli, per la medesima via gli mette dentro.
Ferruccio intanto, quasi il sole non gli avesse riarsa la faccia, il cammino stancate le membra, la fatica e la polvere assetato, taciturno si aggira per le mura della cittadella, specola i luoghi, esamina i muri, nota le archibusiere avverse, poi assente col capo ad una sua interna determinazione e, percotendo della palma aperta il parapetto, esclama: “Pu`o farsi!”
…Cominciato l’assalto di Volterra: il Ferruccio con la sua mente pens`o quell’assalto e con le sue mani lo vinse; preso da furore, cominci`o da ferire quanti tra i suoi mostravano vilt`a, e fatta una testa di cavalleggieri armati a piede, si caccia avanti e riesce a capo della Via Nuova. Allora presero a rompere i muri delle case e sforzarsi di entrare; la disperazione da un lato e la speranza presentissima di vincere dall’altro riaccendono la mischia; di qua e di l`a, morti e ferite. Pur finalmente i muri furono rotti, i Ferrucciani si spandono nelle case. Allora comincia una guerra spicciolata su pei tetti, nelle cantine, di stanza in stanza, con molta strage dei soldati e dei cittadini di Volterra. I Ferrucciani, dalla dura resistenza inacerbiti, non serbano pi`u modo, ed agli orrori gi`a tanti aggiungono il fuoco, il quale apprendendosi agli antichi edifizii, come voglioso di primeggiare nella opera della distruzione, in breve ora riduce in cenere quaranta case: le avrebbe distrutte tutte, se all’improvviso squarciandosi il cielo con procella di saette e di tuoni non avesse mandato gi`u un acquazzone, il quale spense il fuoco e le forze degli assalitori spossati dal cammino e da sei ore di affannoso combattimento.
Nel giorno 13 giugno gi`a tre furono gli assalti: il primo con dodici compagnie, il secondo con diciotto, il terzo con venticinque, combatterono dall’alba fino alle 23 ore di sera, e dei nimici morironvi 400, altrettanti i feriti: ai nostri manc`o la munizione di polvere. Il Ferruccio rimase ferito nel secondo, non gi`a nel primo assalto: molti dicono di una sola ferita: il Varchi ne parla in plurale: nella lettera del 6 luglio scritta dai commissari di Volterra ai Dieci, oltre la percossa ricevuta alla batteria, si rammenta la cascata da cavallo: e il Diario dello Incontri riporta del pari di una mala ferita che si fece al ginocchio, per esserglisi abbattuto sotto il cavallo mentre con gran impeto si spingeva ad ammazzare un Volterrano che vide starsene scioperato invece di accorrere ai bastioni: alla quale si aggiunse la febbre: e si fe’ portare dove si combatteva per essere veduto dai soldati. Questo secondo assalto incominci`o il 21 giugno, un’ora prima del giorno; dopo 500 cannonate che atterrarono in pi`u parti le mura riparate con botti, materasse e terra, alle ore 20 salirono all’assalto: tre volte si spinsero su la breccia, e tre furono respinti cos`i duramente che dopo quattro ore si dettero alla fuga lasciando sul campo 800 tra morti e feriti. Quando l’esercito imperiale si part`i con tanta vergogna, i Ferrucciani gli corsero dietro menando rumore con teglie, padelle e corni, dicendogli villania. Fabrizio aveva tratto seco 500 fanti e 5000 cavalli: il marchese 4000 fanti: bagaglioni e marraioli non si contano.
Capitolo Ventesimonono
La battaglia della Gavinana
I Dieci, pressurati dal popolo, il quale, non trovando pi`u sozzure e schifezze da cibare, urlava con l’urlo della fame, scrissero al Ferruccio che per amore di Dio si avacciasse; che se non poteva andare lui, spedisse ad ogni modo tutta quella gente preponendole Giovanbatista Corsini detto lo Sporcaccino, o quale altro gli paresse pi`u idoneo; nel qual caso davano a colui che mandasse la medesima autorit`a. Presentata questa lettera al Ferruccio, dopo averla letta e poi ripiegata, tenendola in mano, la prese da un lato co’ denti dicendo:
“Andiamo a morire”.
Senz’altro indugio il Ferruccio si pose in via, lasciata Pisa il 1 agosto 1530 e movendo per la Valdinievole: chiesta e non ottenuta dai Pesciatini la vettovaglia, fatto mostra di prendere la via maestra e piana, prevalendosi dell’oscurit`a della notte, tralascia l’agevole sentiero e si getta tra i monti che gli sorgono a mano dritta nelle vicinanze di Collodi. Diventando la notte pi`u nera, ed essendo ormai pervenuto a Medicina, castello del contado lucchese, gli parve di qui rimanersi, tanto pi`u che in questo luogo aveva dato ritrovo a certi capi di parte cancelliera, per propria prestanza e pi`u per le molte parentele ed amicizie a sostenere le cose della Repubblica pericolante adattissimi.
“Voi non dite la verit`a. Lasciate l’uomo arbitro di giudicare i casi secondo i quali deve o no mantenere la fede, ed lui vi prover`a ch’ebbe sempre ragione. Rispondete, vi prego, messere commessario, alla mia domanda; che fareste voi?”
“Io! – manterrei la fede data e mi romperei il cuore”.
“Ed io serber`o la fede, e, senza pure rivedere la faccia de’ miei in questa stessa notte, con le armi ed il danaro che mi trovo addosso, me ne vado in Ungheria per combattere contro il Turco e spendere la vita in favore della cristianit`a”.