Итальянский с любовью. Осада Флоренции / L'assedio di Firenze
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“La morte! la morte!” – grid`o pi`u alto il pontefice negli orecchi all’imperatore.
“La morte! ” – proruppe Carlo V, – “che fa a me la morte? I codardi soccombono a questo pensiero, gli animosi lo portano come una corona di fiori. `E meglio lasciare l’opera interrotta che non incominciata… I monumenti pi`u grandi che il mondo conosca si devono al pensiero della morte – parlo delle Piramidi. La morte sta nelle mani di Dio, l’uso della vita in quelle dell’uomo. La mia anima abbisogna che la testa del suo corpo si posi nella vecchia Europa, il tronco in Africa e in Asia, i piedi in America. Io non anche percorsi la curva ascendente della mia vita, non giungo ancora a trent’anni; e se in questo punto mi toccasse la morte, come Cesare Augusto potrei domandare ai miei amici, ai miei nemici, a voi stessi: parvi ch’io abbia ben sostenuta la mia parte nel mondo? Le imprese da me fino a questo punto operate, se non possono la mia fama a quella di Alessandro Magno anteporre, bastano ad avvilupparmi in un sudario che mi salvi dal verme dell’oblio. Se adesso io morissi, il cuore mi assicura che gli uomini direbbero: meritava vivere di pi`u. Papa Clemente, se voi moriste adesso, che cosa pensate il mondo fosse per dire di voi? Lui `e vissuto troppo poco, o `e vissuto anche troppo?”
Clemente tacque. Guardato prima con molta diligenza un taccuino che si cav`o dal seno di sotto alla mezzetta, rispose:
“Pi`u nulla”.
“A quando l’incoronamento?”
“I vostri ufficiali di cerimonie possono concertarne il tempo e le forme col maestro del sacro palazzo”.
“Addio, dunque, Beatissimo Padre”.
E Carlo disparve, le porte si chiusero, Clemente si trov`o solo nella stanza. Allora, declinato il capo sul camino, medit`o per lunghissima ora: all’improvviso si muove e si pone davanti alla sedia che occup`o l’imperatore durante il colloquio:
“Carlo d’Austria!” – cominci`o a dire alzando il dito e comprimendolo sopra l’angolo della tempia destra, “le libert`a dei comuni di Spagna, i privilegi delle citt`a dei Paesi Bassi, le prerogative degli Stati Germanici ti avviluppano dentro rete validissima. Tu ti sforzi con ogni ingegno per divorarli; bada, Maest`a, il tarlo rodendo si scava la tomba. La tua potenza non uguaglia il tuo orgoglio, i vasti concetti della tua mente non posano sopra anima in proporzione vigorosa; se pieno di forza rassomigli al sole di estate, come quel sole ogni giorno il tuo spirito tramonta. Maest`a, tu mi hai supplicato per ottenere dalle mie mani una corona; ah semplice che fosti! io sarei venuto in capo al mondo per offrirtela; prostrati, Maest`a, umiliati, Perch'e mi tarda importi questa corona sul capo; io la circonder`o di punte invisibili e angosciose, le quali ti penetreranno nel cranio scompigliandoti il pensiero, turbandoti del continuo la coscienza. Io ti adatter`o la corona sul capo come il collare al collo dello schiavo; che importa a me di cingertene il collo, la mano, il piede o la testa? Non per questo tu diventi meno servo alla chiesa romana! Affrettati a prostrarti, Maest`a: io m’innalzer`o tanto, quanto tu l’abbasserai; e allorch`i, Maest`a, avrai baciato la polvere dei miei calzari, ti travaglierai indarno per dominarmi sul capo. Rendimi grande con la tua vilt`a e in processo di tempo se vorrai abbattere l’idolo che tu stesso avrai fatto grande, o non ci riuscirai, o rimarrai infranto sotto la rovina di quello”.
Capitolo Quarto
La incoronazione
Finalmente il santo padre cinse a Carlo le chiome della corona imperiale. Carlo allora, giusta le formalit`a, si prostrava curvandosi al bacio dei piedi santi. Era per`o convenuto che il papa non gli lascerebbe compiere l’atto, e rilevatolo a mezzo, lo avrebbe stretto tra le braccia e baciato nel volto. Ma come resistere alla compiacenza di vedersi innanzi prostrato un signore di tante provincie? Non tutti i giorni si trovano imperatori da rinnovare tale ossequio; e poi, Clemente lo aveva gi`a detto, si sarebbe di tanto rialzato il sacerdozio quanto abbassato l’impero. Si dimenticava pertanto del convenuto: il coronato stette lunga pezza nell’attitudine dello schiavo: in quel punto la corona gli pes`o sul capo come se fosse stata una montagna; allora gli parve che il mondo, poc’anzi da lui sorretto nella mano, adesso di tutto il suo peso gli gravitasse sul corpo: come il serpente della Scrittura, lui si nudr`i di cenere e la sent`i amara, senza misura amara; sicch'e il suo cervello, compresso dal pentimento, dalla umiliazione e dalla rabbia, still`o una goccia di sudore, la quale, come quella dell’anima dannata dello scolare apparsa al suo maestro di filosofia, secondo che racconta frate Jacopo Passavanti [6] nello Specchio della vera penitenza, avrebbe avuto virt`u di traforare da una parte all’altra con insanabile piaga i piedi del pontefice, se per avventura ci fosse caduta sopra.
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Jacopo Passavanti (1302–1357) – uno scrittore e architetto italiano
Fuori del tempio il popolo urlava, insaniva, fremeva a guisa di baccante scapigliata; Perch'e nessuna scintilla d’intelletto gli balenasse su l’anima, qui `i pane, qui copia di vino, camangiari e giullari. Sopra una colonna di marmo stava l’aquila imperiale; la quale da uno de’ suoi becchi versava vino rosso, dall’altro vino bianco, e gi`u intorno alla base della colonna vedevi prostesi uomini deturpati da oscena ubbriachezza. Sicch'e l’Alamanni [7] a questo spettacolo ebbe a dire: Ecco l’aquila imperiale rende oggi a spiluzzico alla gente italica il sangue che loro bevve a lunghi sorsi in tanti anni e le lacrime che le fece in copia versare; ma gliele rende stemperate nel veleno della stupidit`a.
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Luigi Alamanni (1495–1556) – un poeta, politico e agronomo italiano
Ahi! popolo, io che ho viscere di umanit`a e sono parte di te, conosco le tue miserie e le compiango. Bevi, procurati un sonno uguale alla morte; le tue gioie consistono nel non sentire i tuoi dolori. Ora tu sei condotto in piazza, come l’orso ammansito, per sollazzare i tuoi sovrani padroni.
Dalle finestre, dai terrazzi lui ordina che ti siano gettati pane e carne. Potessi cibarti per un anno e approvigionarti lo stomaco, come la cittadella che teme l’assedio, saresti meno infelice; ma domani l’insolito cibo ti recher`a molestia, forse anche la morte. Feste, forni e forche; ecco la somma dei paterni argomenti con i quali ti governano i tuoi signori. Domani tornerai a logorarti nelle consuete officine, a bagnare di sudore i solchi dei campi; quivi travagliati da mattina a sera, e l’opera delle tue mani, il sudore della tua fronte devotamente consegna ai re e ai sacerdoti tuoi. Questi ti lasceranno la vita, ti lasceranno un pane, il cielo che ti copre e il sole che ti scalda… o che non basta? Indiscreto! Via, ti lasceranno tanto spazio di terra da riporci dentro le tue ossa, perch'e non le rodano i cani, ed ancora perch'e morto tu col fetore non gli offenda dopo che vivo tanta recasti loro gravezza e molestia.
Capitolo Quinto
Papa Clemente VII
Clemente papa ora se ne sta ridotto nella stanza pi`u riposta del suo palazzo: essa [8] era di forma ottagona con bellissime colonne di ordine ionico. Da quattro lati ci fanno capo altrettante porte di rare modanature come sapeva condurre la eccellenza dell’arte cos`i comune in quei tempi; gli altri sodi appariscono ornati di quadri rappresentanti martiri di santi, membra segate, capi fessi, brindelli laceri, che infondono, piuttosto che riverenza, ribrezzo; intorno all’architrave superiore si innalza una parete che gli architetti chiamano tamburo, e sul tamburo una cupola elegante a imitazione delle forme immaginate dal divino Brunellesco. Il servo andasse ad aprire la porta, dicendo:
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essa – la stanza
“Ecco gli oratori fiorentini.”
Si apersero le porte, e comparvero Nicol`o Capponi, Luigi Soderini, Jacopo Guicciardini e Andreuolo di messer Otto Nicolini, oratori del comune di Firenze. Giunti appena che furono al Pontefice, e si prostrarono al bacio dei santi piedi: ma Clemente, rilevandoli con la voce e con i gesti favellava:
“Alzatevi, messere Nicol`o e voi messere Andreuolo; su via, messeri Luigi e Iacopo, sedetevi. L’imperatore ha da curvarsi al cospetto nostro e baciarci i piedi: voi poi siete parenti, amici, tutti figli della medesima madre. Messere Nicol`o, che cosa fanno Piero e Filippo vostri? Venite, parliamo di Firenze nostra in famiglia. A quale stato la povera citt`a si trova condotta adesso?”
“Dentro”, – rispose severo messere Nicol`o, – “non si patisce difetto di animo n'e di vettovaglia n'e d’armi: i barbari fuori, raccolti ai nostri danni, tagliano le viti, ardono gli ulivi, le case distruggono, i popoli uccidono o sperdono. Tanta e s`i grande ingiuria appena potrebbe cagionare il terremoto; pi`u poca ne far`a il giorno finale; dappertutto seminano il deserto…”
“O Firenze mia, dove ti porteranno questi sconsigliati? Vediamo, fratelli, di rinvenire fra noi modo che valga a salvarla dalla rovina. Accordiamoci a cacciare via i barbari che la divorano… queste immani bestie tedesche, che dalla voce e dall’aspetto non hanno niente di umano, come scriveva la buona anima del nostro messere Nicol`o....”
“Padre Santo, fuori di misura piacevole riesce allo spirito nostro contristato”, – riprese a dire il Capponi, —“l’intendere la buona mente della Santit`a Vostra verso la patria comune… vostra [9] madre e mia. Brevi i patti della pace e consentanei al giusto. La libert`a si conservi, si restituisca il dominio, del presente reggimento nulla s’innuovi”.
“Libert`a!” – interruppe il Pontefice a mano a mano infervorandosi nel dire: “e parvi libert`a questa dove senza ragione parte dei cittadini s’imprigionano, molti pi`u si perseguitano, alcuni si mettono crudelissimamente a morte? Vi sembrano modi civili ardere il palazzo Salviati a Montughi, ardere il nostro a Careggi, proporre di spianare l’altro a Firenze e farci una piazza in vituperio della casa Medici chiamata dei Muli? Ditemi si `i onesto e ordinato quando nella citt`a i pi`u tristie senza pena penetrano nei tempi di Dio, le immagini votive dei miei maggiori riducono in pezzi, me tamburano e vogliono dichiarare ribelle, me vicario di Cristo appiccano in casa Cosimino? Non parliamo di questo. Or via, nobili uomini, alsoltatemi: io voglio avere un reggimento Firenze dove, senza offendere la libert`a, uno della mia famiglia, o Ippolito o Alessandro, sia considerato come principale cittadino, voi altri ottimati della citt`a gli componiate un senato il quale insieme con lui attenda alle pubbliche bisogne. Poich`i le fortune e la virt`u di per s`i stesse distinguono l’uomo e il cittadino della povert`a e dalla ignoranza, sanzioniamo con legge quanto apparisce necessit`a di natura”.
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vostra = Sua (старая